19 aprile 2024
Aggiornato 22:00
La novità

Dalla Sardegna un assist ad Appendino: la parola «sindaca» diventa legge

Nell’isola approvato un documento che impone ufficialmente la distinzione di genere tra le figure istituzionali. Nessun obbligo, per ora, in Piemonte

TORINO - Chissà se Chiara Appendino chiederà mai a Sergio Chiamparino di imitare i suoi colleghi sardi, i quali hanno da poco approvato una legge regionale dove l’uso della parola «sindaca» è ora imposto in tutti i documenti ufficiali. Sì perché, per coloro che ancora non lo sanno, ogni tipologia di atto formale che esce dalle segreterie regionali della Sardegna deve, da ora in poi, operare una doverosa distinzione di genere. 

Cosa cambia in Sardegna
A sancire il nuovo corso è infatti l’ultima legge sulla semplificazione amministrativa approvata dalla regione isolana che, all’articolo 6-bis, riporta quanto segue: «Per garantire lo sviluppo delle proprie politiche di genere - si legge nelle righe del documento - la Regione riconosce e adotta un linguaggio non discriminante, rispettoso dell’identità di genere con l’identificazione sia del soggetto femminile che del soggetto maschile negli atti amministrativi, nella corrispondenza e nella denominazione di incarichi, di funzioni politiche e amministrative». A essere coinvolte in questa mini-rivoluzione sono tutte le figure, non solo il sindaco, poiché chi legge gli atti trova infatti anche vocaboli come «assessora», «commissaria», «prefetta» e così via. Il merito di tutto ciò è di una consigliera del Centro Democratico, tale Anna Maria Busia, che da tempo si batteva per far approvare il provvedimento. 

Nessun obbligo in Piemonte
Va detto che, da qualche tempo, anche i documenti di Palazzo Civico seguono una linea simile e i termini «sindaca» - in riferimento ad Appendino - e «assessora» - in luogo delle figure femminili che compongono la giunta - sono ormai assodati. Tuttavia, a differenza della Sardegna, in Piemonte non vi è alcuna legge che ne imponga l’utilizzo. Non è escluso però che Appendino - e forse anche la sua collega Raggi a Roma - ci faccia un pensiero, anche perché a far cadere l’ultimo tabù in questo senso è stata nientemeno che l’eminente Accademia della Crusca, secondo cui: «Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana»